Il trapianto di microbiota intestinale è una pratica che recentemente ha destato l’attenzione sia dei sanitari sia dei laici, in virtù delle tante potenzialità potenzialmente legate a questa pratica.
Da numerosi studi di ricerca primaria è emerso come mediante questa tecnica sia possibile trasferire alcune caratteriste dal “donatore” al “ricevente”, caratteristiche dovute in prevalenza (alla luce delle conoscenze attuali) all’azione di specifici ceppi batteri presenti a livello intestinale nel donatore.
Sono molteplici, solo per fare alcuni esempi diversi studi hanno riportato la possibilità di conferire la capacità di affrontare quadri infettivi molto gravi e drammatici, come ad esempio l’enterocolite necrotizzante dovuta all’infezione da Clostridium difficile. Altri lavori sperimentali hanno messo in evidenza la capacità di favorire la transizione da un fenotipo magro a quello obeso (e viceversa) oppure di trasferire caratteristiche che sembrano predisporre a quadri di ipertensione, all’insufficienza renale cronica, al rischio cardiovascolare o al rischio di malattie oncologiche intestinali. Lavori sperimentali invece stanno valutando la possibilità di impiego nell’encefalopatia epatica resistente alle terapie, nel contesto di protocolli di trattamento oncologico e nella prevenzione del graft versus host disease. Da questo quindi si comprende come le caratteristiche potenzialmente trasferibili possono essere sia positive sia negative per la salute del ricevente.
Esistono diverse possibilità, quella di prelevare e lavorare il materiale dal soggetto ritenuto “sano” (donatore) e trasferirle nel ricevente mediante sondino naso gastrico o mediante tecniche endoscopiche (selezionate in base al tipo di effetto prevalentemente desiderato). Oppure è possibile procedere lavorando il materiale batterico prelevato dal “donatore” , liofilizzarlo (come avviene per molti probiotici), congelarlo e incapsularlo in capsule gastro resistenti (per questa applicazione si usano all’incirca 4 g di materiale prelevato), somministrando il tutto come un comune farmaco incapsulato.
La maggioranza degli studi realizzati nel modello animale e in quello umano hanno riportato un interessantissimo margine di efficacia per queste applicazioni, con un margine terapetico estremamente interessante, in particolare per quanto riguarda l’infezione da Clostridium difficile.
Qui nascono i problemi, in quanto dato che sono trasmissibili sia caratteristiche positive, sia caratteristiche negative, diventa veramente difficile nel contesto dei miliardi di specie batteriche presenti nell’intestino umano, definire con chiarezza qual è il soggetto sano, o quanto meno qual è il margine di rischio accettabile. Per questo fino ad ora il trapianto di microbiota è stato utilizzato esclusivamente come ultima ratio quando altri approcci terapeutici si fossero mostrati inefficaci, in pratica una risorsa salvavita da utilizzare coso per caso. Purtroppo come volevasi dimostrare, quello che fino a qualche mese fa era stato solo ipotizzato si è poi verificato in seguito a un trapianto di microbiota effettuato in un soggetto che aveva propriamente indicazione per questa tipologia di applicazione.
Il primo soggetto è un uomo di 69 anni con cirrosi epatica in esiti di infezione da HCV (virus dell’epatite C) con un End-Stage liver disease score di 18, affetto da ecefalopatia epatica refrattaria ai comuni trattamenti. Il soggetto è stato arruolato per un trapianto di microbiota mediante capsule contenenti materiale congelato (FMT). A cavallo tra Marzo e Aprile 2019 il soggetto ha ricevuto 15 capsule FMT 5 volte in 3 settimane, contestualmente a una profilassi per l’encefalopatia effettuata con rifaximina prima, durante e dopo il trattamento. Per 17 giorni successivi alla somministrazione dell’ultima dose di FMT il paziente non ha mostrato effetti avversi fino alla comparsa nel Maggio 2019 di febbre a 38,9° e tosse. Alla radiografia si è evidenziato il riscontro di infiltrato polmonare trattato con levofloxacina, a 2 giorni dall’inizio del trattamento il paziente è stato rivisto per assenza di miglioramenti clinici. L’emocoltura effettuata in precedenza ha mostrato l’evidenza di batteriemia da Gram negativi, in seguito alla quale è stato disposto il ricovero e il trattamento con piperacillina e tazobactam. Dopo 4 giorni dall’inizio della suddetta terapia è stata effettuata una paracentesi in seguito a significativo sviluppo di ascite, il fluido prelavato mostrava un livello di globuli bianchi di 384 cellule/mm3 di cui 31% neutrofili e l’assenza di batteri, confermata da successiva coltura. Una volta pronti i risultati dell’emocoltura è stato possibile isolare un ceppo di Escherichia coli in grado di produrre producono beta-lattamasi a spettro esteso (ESBL). La terapia è stata orientata sui carbapenemici impieganto per 14 giorni meropenem seguito da ertapenem. In seguito a questa terapia le condizioni cliniche del paziente si sono stabilizzate e le successive colture fecali si sono dimostrate negative per la presenza di E. coli ESBL.
Il secondo soggetto era un uomo di 73 anni con una sindrome mielosdisplastica indotta dalle terapie seguite in precedenza, ricoverato per trapianto allogenico di cellule emopoietiche dopo condizionamento a ridotta intensità (utilizzando mephalan e fludarabina) con materiale ottenuto da donatore non familiare non HLA compatibile (MMUD mismatched unrelated donor). Il paziente ha ricevuto la necessaria profilassi per prevenire il graft-versus-host disease in seguito a trapianto mediante la somministrazione di ciclofosfamide ad alto dosaggio nel terzo e quarto giorno successivi al trapianto, seguito dalla somministrazione di sirolimus e micofenolato mofetile a partire dal quinto giorno. Il paziente è stato incluso in un protocollo di studio che prevedeva la somministrazione di 15 capsule di FMT il terzo e quarto giorno precedente al trapianto. Il giorno precedente il trapianto è stato regolarmente eseguita la profilassi con cefpodoxima (scelta in quanto il paziente era allergico ai fluorchinolonici) per minimizzare il rischio di batteremia da GRAM- . L’ottavo giorno dopo la somministrazione di FMT (quinto giorno dopo il trapianto) il paziente ha sviluppato febbre a 39,7° C , brividi e alterazione dello stato mentale. E’ stata effettuate un emocoltura prontamente seguita da terapia antibiotica con Cefepime per neutropenia febbrile assoluta (conta dei neutrofili a 0). Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno il paziente ha mostrato ipossia ed è stato trasferito in terapia intensiva. I risultati preliminari dell’emocoltura hanno mostrato infezione da GRAM- in seguito alla quale è stata prontamente modificata la terapia aggiungendo meropenem. Nonostante il massimo supporto fornito l’exitus del paziente si è verificato 2 giorni dopo come conseguenza del severo quadro di sepsi. Una volta ultimato l’esame colturale anche in questo caso è stato isolato Escherichia coli ESBL.
Nonostante la presenza di Escherichia coli ESBL a livello del microbiota intestinale della popolazione statunitense sia un evento relativamente raro (1-2% della popolazione circa), nel Gennaio 2019 gli screening volti allo studio dei soggetti da cui prelevare il materiale utilizzato nella realizzazione delle FMT sono stati estesi anche a questa tipologia di battere. Il problema alla base dei due casi riportati è stato semplicemente dovuto al periodo di realizzazione delle capsule utilizzate; antecedente a Gennaio 2019 e al fatto che a nessuno è venuto in mente di ricontrollare il materiale utilizzato. Un ulteriore fattore da considerare è come la profilassi antibiotica praticata prima dei trattamenti possa contribuire alla selezione, in questa tipologia di pazienti, di ceppi multi-resistenti.
Questi risultati confermano come a oggi, pur mostrando numerose potenzialità, il trapianto di microbiota intestinale non è una pratica esente da rischi e quindi come vada attentamente considerato il rapporto rischio-beneficio prima di poter concretamente pensare al suo utilizzo, ridefinendo quella che fino a poco tempo fa veniva ritenuta una pratica praticamente esente da rischi.
In quest’ottica diventa particolarmente importante considerare anche gli strumenti già a disposizione che hanno dimostrato significative potenzialità applicative e ottimi margini di sicurezza: i ceppi batterici comunemente utilizzati nelle terapie probiotiche e in quelle bioprotiche. Infatti nel primo caso è possibile somministrare ceppi batterici in grado di esercitare, se vivi e vitali, effetti positivi sulla salute umana con una vasta gamma di effetti dovuti in prevalenza all’antagonismo o all’agonismo biologico con altri ceppi e alla loro capacità di interazione con l’organismo umano. Nel secondo caso invece è possibile utilizzare ceppi batterici in grado di produrre sostanze (per esempio peptidi cationici) in grado di esercitare un vero e proprio effetto “farmacologico” comportandosi per esempio come veri e propri antibiotici, immunomodulatori eccetera. Considerando la grande complessità alla base dei trapianti di microbiota intestinale e il notevole sviluppo che sarà ancora necessario prima di una sua applicazione routinaria con significativi margini di sicurezza, la conoscenza degli strumenti probiotici e bioprotici documentati in letteratura scientifica costituisce un importantissima risorsa che dovrebbe essere assolutamente valorizzata e implementata a completamento del bagaglio terapeutico del medico.
F. Di Pierro Argomenti di terapia batterica – II edizione – CEC Editore 2019